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Il mondo Maya: quadro Geografico e Storico

Le scoperte archeologiche di questi ultimi decenni hanno distrutto la vecchia storia secondo la quale la civiltà Maya si sarebbe trovata isolata nel suo splendido sviluppo, per diventare poi in seguito l’ispiratrice delle altre culture vicine. Non c’è nulla di vero, e noi oggi sappiamo che cinque nuclei importanti si sono sviluppati parallelamente durante il periodo classico, e cioè all’incirca tra il 300 e il 900; quattro civiltà si sono dunque trovate in contatto culturale più che materiale con il mondo Maya: quella degli Olmechi, o dei La Venta , la più vicina ai Maya, in fondo al golfo del Messico, a sud del Veracruz; quella nel cuore del Veracruz, con la tribù dei Totonachi, che si sviluppò attorno a El Tajin, tra il VII ed il XIV secolo; quella degli Zapotechi di Monte Alban nella regione di Oaxaca, che fiorì soprattutto tra il 500 e il 1000; e in fine quella di Teotihuacan, la città delle grandi piramidi, la cui “età dell’oro” è da collocare tra il 400 e il 700. Siccome tutte queste civiltà presentano dei tratti culturali comuni, subito si pone il problema delle origini del popolamento.

In verità gli spagnoli incontrarono un vero e proprio mosaico di popoli diversi in quelle distese immense i cui panorami si succedevano con una varietà infinita, andando dalle steppe desertiche, irte di cactus, alle tundre ghiacciate delle alte vette, macchiettate di muschi e licheni, alle torride Tierras calientes, umide e ricche di vegetazione esuberante, alle zone temperate, Le Tierras Templadas, coltivate e ricche di pini e di felci arboree, e infine alle fredde Tierras Frias, situate tra i 2000 e i 3000 metri sul livello del mare. La vita e le credenze religiose risentivano dell’ambiente ostile in cui cicloni, eruzioni, terremoti erano assai frequenti.

Una diversità appariva pure dallo studio dei vari dialetti. Un etnologo francese, studiando l’universo precolombiano, ha individuato 123 famiglie di lingue diverse con legami di parentela assai blandi tra di loro. Lo strano polimorfismo constatato sia per quanto riguarda gli aspetti antropologici che linguistici lascia perplessi tutti i ricercatori: la diversità sconcertante delle caratteristiche fisiche (concernenti la statura, la morfologia, la pigmentazione, i gruppi sanguigni ecc) o i dialetti degli Amerindi non smette di sconcertare. La spiegazione di tale diversità va cercata nella natura e nella lunga storia della popolazione americana.

Il terrotorio Maya – Quadro Geografico

Osserviamo ora rapidamente il passaggio nel quale i Maya svilupparono la loro sbalorditiva civiltà. A dire il vero, delle centoventitrè famiglie etniche individuate, è innegabile che quella dei Maya ha dato origine alla cultura più brillante, più evoluta, più dotta, oltre che più diffusa e più compiuta dal punto di vista artistico. La straordinaria avventura Maya si colloca grosso modo lungo i primi quindici secoli della nostra era; il suo periodo di maggior splendore si trova tra il III ed il XII secolo e la sua “morte” ufficiale, dal punto di vista militare, risale al 1697 a Tayasal (Peten – Guatemala).

La grandezza raggiunta da quel piccolo popolo poco numeroso, ci sorprende ancor più in quanto lo spazio e lo scenario nel quale questa civiltà si sviluppò presenta un carattere particolarmente ingrato e ostile: o troppa acqua o poca. Forse, accettando il parere di J.Toynbee, è il caso di dire che proprio quella sfida alla natura e la necessità di vincere la terra e gli elementi hanno temprato e rinvigorito l’animo di quel piccolo popolo, sognatore ma deciso.

Situato nel cuore dell’America Centrale, all’estremità Sud-orientale dell’altopiano centrale messicano, il territorio dei Maya occupava una superficie grande quanto l’Italia, estendendosi per circa 900 chilometri, dalle coste del Pacifico, a Sud, fino all’estremità settentrionale dello Yucatan, una specie di sperone che si spinge verso Nord, in direzione del Tropico del Cancro.

Intorno all’universo Maya, i popoli confinanti, parlano soprattutto nahuatl, la lingua del Messicani dell’altopiano centrale. Spesso si usa il termine “Messicano” in contrapposizione a quello Maya per designare in particolare la civiltà non Maya del Messico. In quella zona Maya, tra il Mar dei Caraibi e il Pacifico, si succedono tre zone diverse dal punto di vista naturale: ambiente, vegetazione, clima, tipo di vita cambiano man mano che ci si sposta da una costa all’altra e da Sud verso Nord.

Le stelle e il loro Culto

Durante la grande epoca classica, e soprattutto verso la fine, i Maya avevano perso l’abitudine di innalzare ogni Katun – 20 anni – per ogni dieci anni e infine ogni cinque anni, sulla grande piazza cerimoniale delle loro città, una stele scolpita commemorativa, la cui erezione probabilmente avveniva con grande concorso di folla, ed era l’occasione per cerimonie e feste. In più di cento città sono state ritrovate circa mille stele, 86 nella sola Tikal e, per la celebrazione dell’anno 790, per esempio, sono state trovate delle stele in non meno di diciannove città.

Di pianta quadrata, esse superano raramente i tre metri; a Quiriguà, una di esse, risalente al 771, è eccezionalmente lunga (undici metri) e pesa 65 tonnellate. Spesso un altare basso, pure monolitico, veniva loro associato; la sua forma era spesso quella di un semplice tamburo, ma spesso rappresentava animali assai complessi, o favolosi animali mitologici. Questo accoppiamento, di stele – altare, pare originario della città di Tikal. Quasi tutte le stele sono scolpite su tutte e quattro le facciate e rappresentano generalmente, in alto rilievo, un personaggio in piedi, con ricchi ornamenti, che tiene le braccia piegate e la barra cerimoniale appesa al petto. Si tratta senza dubbio di un sacerdote astronomo, con indosso un costume lussuoso, carico di gioielli estremamente complessi; nel campo rimasto libero si allineano colonne di glifi non decifrati. Ignorando il significato di questi testi, non si sa come spiegare il motivo profondo che spinse a costruire a scadenze regolari quei monoliti che continuano a rimanere per noi inspiegabili. Un tempo decorate con colori vivaci, queste stele sono ricoperte ora da una patina monocroma.

Durante sei secoli – 292 e 909 sono le due date estreme reperite – esse vennero erette nel cuore delle città, e le più belle, le ultime, risalgono all’800 per Copan, una città che ne conta ben 38 scolpite nell’andesite, all’810 per Quiriguà, all’869 per Tikal, all’889 per Uaxactun, e infine al 909 per la Muneca; stranamente, nel grande centro di Palenque ne è stata ritrovata solo una.

Comunque, sebbene al momento dell’arrivo degli spagnoli gli abitanti avessero completamente dimenticato il loro significato e il loro ruolo preciso, esse testimoniano tuttavia l’importanza costante e dominante del cosmo e dello scorrere del tempo nella vita dei loro antenati. Si suppone che i codici abbiano assunto le funzioni delle stele, nell’epoca della rinascita, perché, ricordiamolo, proprio intorno all’850 – 900 ebbe luogo lo strano collasso che scosse il mondo Maya.

I tre Codici

Tre codici soltanto sono sopravvissuti, per puro caso, al periodo coloniale, e si trovano a Dresda, a Madrid e a Parigi; un quarto è stato ritrovato da poco. In totale, con i codici dell’altopiano messicano, ci sono pervenuti 17 codici, mentre migliaia di quei preziosi manoscritti sarebbero state distrutte dai conquistatori iberici. Si presentano come lunghi filatteri, piegati a fisarmonica, formati da molti foglietti scritti e dipinti su due facce; la maggior parte sono costituiti da una specie di carta spessa, detta huun, ottenuta martellando le fibre vegetali di una scorza di “ficus cotinifoglia”, un fico selvatico, cosparsa prima di resina (una gomma naturale vegetale) e poi da un sottile strato di calce spenta, spalmata di amido; insomma, una preparazione simile a quella dell’affresco. Una volta piegati e sovrapposti, i foglietti assumevano esattamente l’aspetto di un libro. Alcuni venero realizzati con sottili pelli di daino.

Dipinti sulle due facciate, con tinte chiare e delicate, queste pagine sono piene di testi, disegni e vignette animate da personaggi spesso mistici. Questi libri ci parlano di divinità, di astronomia, di oroscopi, di rituali religiosi, per quel che è dato sapere, perché dei 372 glifi che vi sono stati rinvenuti, 200 restano totalmente incomprensibili.

Il codice di Dresda (detto codex Dresdensis), il più bello e il più complesso dei tre (cm.350X20X9) risale probabilmente all’XI o XII secolo e ricopia quasi sicuramente un originale del periodo classico; parla delle eclissi, della rivoluzione sinodica di Venere, di riti religiosi e di pratiche divinatorie, per ben 70 pagine. Proprio partendo da quel codice della biblioteca di Dresda, Ernst Forstermann, impiegato di quella biblioteca, riuscì a decifrare una parte del calendario Maya, e a compiere il lungo conto che permette di stabilire una data in rapporto al punto di partenza cronologico Maya, grazie a una serie di glifi. Forstermann, in realtà, si era messo in testa di trovare il contenuto di quello strano libro di magia, e fu il primo, nel 1887, a capire che si trattava di tavole del pianeta Venere.

John Teeple, un ingegnere chimico, costretto dal suo lavoro a frequenti viaggi in treno, usò il suo tempo libero per studiare il complesso sistema di correzione di quelle tavole; una di esse, per esempio, da 69 date di eclissi solari possibili per la durata dei 33 anni successivi… alla redazione del codice naturalmente. Questo codice venne scoperto a Vienna nel 1739, e in seguito venne acquistato dalla biblioteca di Sassonia, a Dresda.

Il codice Tro-Cortesianus di Madrid, che è lungo più di sette metri (cm.715X24X13) e comprende 112 pagine, può risalire al secolo XV. Tratta della divinazione e si presenta come un’opera di consultazione per i preti indovini e tratta anche delle cerimonie in rapporto con i problemi artigianali e dei riti legati alla festa dell’Anno Nuovo. Deve essere stato diviso in due in data che non si è riusciti a stabilire; infatti due biblioteche di Madrid ne possedevano un tempo una parte ciascuna, una con il nome di codex Troano e l’altra con il nome di codex Cortesianus. Poi, dimostrato che esse formavano un tutto, i due tronconi sono stati riuniti al Museo di Archeologia e di Storia di Madrid.

Il codice Peresianus della biblioteca Nazionale di Parigi è parimenti abbastanza tardo (XV secolo) e, essendo in cattivo stato, pare incompleto; è lungo circa cm. 145 e presenta soltanto 22 pagine; è anche questo un’opera di consultazione per i preti indovini e può darsi che le profezie di questo manoscritto abbiano un carattere storico poiché gli avvenimenti futuri erano, nella concezione Maya, delle proiezioni del passato, cioè delle ripetizioni inevitabili. Nella seconda facciata parla della divinità di Katun (7.200 giorni pari a due decenni) e del tun (anno), oltre che delle cerimonie legate alla successione di alcuni di quei Katun. Malgrado l’epoca recente, dal punto di vista dello stile si ricollega ai rilievi di Quiriguà e di Piedras Negras.

Venne scoperto nel 1860 in un mucchio di vecchi documenti abbandonati in un deposito della Biblioteca Nazionale di Parigi; e siccome la carta che lo avvolgeva portava il nome di Perez, venne chiamato codex Peresianus.

Il Popol - Vuh

Il Popol – Vuh, che tratta in uno stesso tempo i miti, le leggende, la cosmologia e la storia dei Maya Quichè del Guatemala, è in primo luogo la storia della creazione, una creazione che si suddivide in quattro atti, quattro Creazioni successive; questa concezione fu condivisa da tutti gli abitanti dell’America Centrale. Anche se il testo del Popol – Vuh che ci è pervenuto è stato scritto intorno al 1550, in dialetto Quichè trascritto in caratteri latini da un nobile cronista decaduto dalla sua funzione, nondimeno esso contiene tutte le conoscenze che erano state trasmesse fino a quel momento.

Vera e propria Genesi dei Maya Quichè, scritta in un sol fiato senza divisioni in capitoli, il Popol – Vuh rimane il testo essenziale per comprendere l’anima profonda dei Maya. Esso ci riferisce il mito della Creazione così come lo concepivano i Maya, e descrive l’evoluzione dell’umanità con le sue diverse creazioni e i suoi successivi cataclismi. Agli inizi dal caos primitivo emergevano soltanto il cielo e l’acqua, “c’erano soltanto l’immobilità e il silenzio nelle tenebre della notte”. Ma con la potenza del Verbo, gridando semplicemente “La Terra”, gli dei creatori, Gukumatz e Hurakan (dal quale deriva la parola uragano), la fecero comparire. Essi la rivestirono subito di foreste, di praterie, di fiumi e la popolarono di una moltitudine di animali, ciascuno con proprie caratteristiche, abitudini e funzioni particolari. Ma poiché questi ultimi erano incapaci di rendere omaggio agli dei, essi furono destinati a servire soltanto da nutrimento e dunque ad essere uccisi e divorati. Gli dei creatori modellarono poi delle creature di argilla che si rivelarono prive di intelligenza e di sentimenti, senza consistenza ne forma e quindi incapaci di parlare e di onorarli. Delusi, gli dei si affrettarono a distruggerli sciogliendoli nell’acqua. Dopo essersi consigliati con alcuni cacciatori mitici e con alcuni incantatori, gli dei scolpirono allora degli esseri di legno, che parlavano, mangiavano e procreavano, ma il cui viso, essendo di legno, non aveva ne vita ne espressione; essi avevano le mani e i piedi privi di dita, e le loro carni erano gialle, prive di sangue. La loro intelligenza era mediocre e, essendo privi di sentimenti, essi ignoravano i loro creatori. Questi ultimi, delusi di nuovo, li fecero annegare sotto diluvi d’acqua che oscurarono la crosta terrestre come una resina spessa. Dal cane al giaguaro, tutti gli animali si rivoltarono contro quei tristi fantocci e tutti gli esseri del creato si ribellarono contro di loro, gli uccelli per primi, compresi i tacchini e persino gli utensili domestici, marmitte e zucche comprese, con setacci e paioli, si misero contro di loro e li ridussero in polvere o li costrinsero a fuggire sugli alberi più alti. Ecco perché le scimmie, che sono loro discendenti, vivono sugli alberi.

Allora gli dei presero una nuova iniziativa: impastarono la farina di mais, di una specie gialla e bianca che avevano scovato, per caso, con l’aiuto della volpe, del coyote, del corvo e del pappagallo, nel seno di una montagna che nascondeva i chicchi nel suo ventre. Modellarono i primi quattro uomini, ma li dotarono di sensi troppo perfetti che permettevano loro di vedere sino all’infinito e di un pensiero che riusciva a cogliere e a d abbracciare tutto. Preoccupati per aver creato dei geni, troppo simili a sé, gli dei soffiarono loro sul viso e subito il loro sguardo si velò, la loro vista si ridusse. “Essi videro soltanto ciò che era loro vicino e soltanto quello che apparve chiaro ai loro occhi”. Gli dei diedero loro delle spose che si trovarono “con gioia al loro risveglio”. Ormai l’alba incorporava il cielo a levante e la stella del Mattino annunciava il sole. Quegli esseri umani, conoscendo il cerimoniale religioso, resero omaggio agli dei che approvarono e ricevettero i loro tributi: Contemplando la stella del Mattino, questi antenati dei Maya storici formularono questa preghiera:” Salve, o Creatore, o Formatore; tu che ci vedi e ci senti, non abbandonarci, non lasciarci mai. O Dio, tu che sei in cielo e in terra, dona a noi e alla nostra discendenza la prosperità finché il sole e l'aurora cammineranno nel cielo e le piante spunteranno sotto la luce. Permettici di camminare sempre per verdi sentieri e fa che noi siamo tranquilli e in pace con i nostri, che viviamo una vita felice; dacci perciò una vita, un’esistenza al riparo da ogni rimprovero, o Hurakan…Gukulmatz, o tu che generi e dai l’essere, fa che la germinazione abbia luogo e che ci sia la luce”.

E’ il caso di notare che, nel pensiero Maya, non è l’apparizione dell’uomo il punto culminante della creazione, ma quello dell’alba. E’ una bella lezione di modestia che fa dell’uomo un essere subalterno e accidentale. Inoltre ogni atto creatore, sia del mondo che dell’uomo, dei vegetali che degli animali, si compie regolarmente di notte e deve terminare prima dell’alba. Questo principio è rimasto in vigore tra i Quichè e i Chorti presso i quali, secondo Girard, “l’atto generatore si realizza soltanto di notte, come le cerimonie del culto agrario, perché entrambi sono la ripetizione dell’atto grandioso della creazione cosmica. Il coito, come la nutrizione, non sono semplici atti fisiologici, ma un rito attraverso il quale l’uomo si inserisce nel sacro…

I sacerdoti Chorti dicono che gli dei lavorano soltanto di notte: è in quell’occasione che fanno crescere la vegetazione; per questo motivo i preti devono agire nello stesso modo in cui agisce il gruppo teogonico che rappresentano. Un’abitudine così strana impone al ricercatore che ha il raro privilegio di assistere a quelle cerimonie, lunghe veglie di notte, in un ambiente profondamente mistico, in cui sente palpitare le vibrazioni intime dell’animo indigeno”.

Parallelamente a quella Creazione in più riprese si narrano altri miti, quali quelli dei due Gemelli, Hunahpu e Ixbalamqué: Hunahpu, il più importante dei due, “assolve a due funzioni” dice Girard; “è il Dio del Mais durante il periodo del lavoro nei campi, e il Dio del Sole durante l’estate. Le cerimonie del culto solare sono celebrate di giorno, in pubblico, poiché esse devono glorificare il Sole; al contrario quelle del dio agrario si svolgono di notte, perché è in quel momento che gli “agrari” lavorano, e sono segrete”. I due Gemelli trasformano in scimmie i loro fratellastri che li perseguitavano, poi, per mezzo di sortilegi e grazie alla fortuna, si impossessano dell’attrezzatura paterna del gioco della Pelota: guanti, scudi di cuoio, palle di caucciù…Il loro messaggero, il pidocchio, viene inghiottito da un rospo divorato da un serpente a sua volta morso da uno sparviero; la zanzara fa la spia e il loro complice, il moscerino, buca la secchia della loro nonna per farla ritardare. Questo è l’universo delle favole con il suo aspetto meraviglioso e il suo carattere incantato; con estrema rapidità gli alberi crescono a dismisura e le cerbottane si trasformano magicamente in canoe. Come gli eroi della mitologia greca, i nostri Gemelli affrontano cicli di prove dalle quali escono con esiti diversi, grazie al decisivo aiuto delle formiche, delle tartarughe e anche dei conigli. Essi sono anche eroi civilizzatori e l’epopea termina con l’enumerazione delle varie conquiste culturali di cui sono stati promotori: l’organizzazione sociale, l’architettura, i riti religiosi e anche la guerra.

Il Popol – Vuh comincia dal caos primitivo e finisce quando viene raggiunto un livello superiore di civilizzazione. Nel decalogo e nei meandri del racconto, sfruttando ogni minimo particolare, Girard si è sforzato di comprendere il significato esoterico, di cogliere il valore e la portata storiografica del libro “perfettamente intelligibile per i Maya Quiché”. La mitologia ha lasciato il terreno letterario per quello scientifico, constata Girard, “tanto più che vivere e agire in accordo con le norme mitologiche fu la costante ossessione del mondo Maya Quiché, la cui cultura resta essenzialmente mitologica, dato che la scienza e la storia non si erano ancora separate dalla religione”. E Girard constata che l’indigeno vive ancora in età mitologica; e questa è un’affermazione capitale per chi cerca di comprenderlo; questo però non vuole assolutamente dire che sia rimasto all’età del pensiero prelogico!

Calendario e Astronomia

I preti erano depositari di tutte le conoscenze intellettuali e la religione, ancora una volta, si trovava intimamente fusa con l’astronomia, come con tutte le altre attività culturali, con le speculazioni aritmetiche, col computo del tempo e col calendario, di cui si è scritto che esercitò una vera e propria dittatura sulla vita dei Maya. Profondamente originale, unico nel suo genere, questo calendario rivela una precisione veramente sbalorditiva, tanto più se si tiene conto che i preti astronomi consideravano la terra piatta come un disco e non pensarono mai che girasse intorno al sole. Il sistema vigesimale – con una progressione di 20 in 20 – della loro aritmetica permetteva calcoli complessi per quanto riguardava lo studio dei fenomeni celesti, poiché toccava all’astronomia regolare e dirigere tutte le azioni della vita. Per i calcoli, essi usavano dei simboli semplici, ad esempio il punto per le unità, ed una sbarretta per la cifra 5; inoltre, dato che i Maya furono uno dei rari popoli che abbiano usato lo zero – simboleggiato da una conchiglia – con un millennio di anticipo rispetto all’Europa, essi poterono, proprio perché erano riusciti a dare una connotazione all’inesistente, dare un valore posizionale alle cifre e in tal modo fare calcoli assai complessi. Seppero, inoltre prevedere con esattezza le eclissi, e scrissero su delle tavole tutti gli spostamenti di Venere con una precisione che lascia ancora sbalorditi gli studiosi moderni. Il codice di Dresda, per esempio, da un totale di 11.960 giorni per 405 lunazioni considerate; orbene, gli astronomi attuale stimano tale durata pari a 11.959,89 giorni, il che corrisponde a un errore, o meglio a una differenza di poche ore per 380 anni. Inoltre gli astronomi Maya ritenevano che l’anno di Venere fosse pari a 584 giorni, e noi oggi sappiamo che esso equivale esattamente a 385,92 giorni, il che comporta un errore inferiore ad un’ora all’anno.

Questi risultati sono tanto più stupefacenti in quanto i Maya non disponevano di strumenti ottici, ne di un’unità di tempo pari all’ora e al minuto. In seguito alle ripetizioni dei calcolo, ad un po’ di “statistica” e alla trasmissione regolare dei risultai, essi correggevano man mano i dati empirici ricavati da una geometria dello spazio e da un’astronomia piuttosto sommarie. Tuttavia, secondo Thompson il calendario Maya era più preciso di quello gregoriano.

Una grande vittoria degli archeologi e degli storici moderni è consistita nel trovare il metodo di trascrizione delle cifre e delle date, il che ci ha permesso anche di poter finalmente collocare nel tempo il mondo Maya. Precisiamo questo sistema: abbiamo già detto che si basa su una numerazione vigesimale (di 20 in 20) e posizionale, il che significa che invece di riportare una cifra a sinistra dopo dieci unità, lo faceva dopo venti; i numeri acquistavano quindi una cifra in più al 20, poi al 400, poi all’8.000, al 160.000, al 3.200.000, ecc. La numerazione posizionale era resa possibile solo dall’uso del numero zero (una conchiglia). Una data Maya è formata da cinque cifre sovrapposte, e non disposte orizzontalmente come nei nostri numeri, il che non toglie che sia ugualmente una numerazione posizionale: la prima cifra corrispondente ai baktun, ognuno dei quali rappresenta 144.000 giorni trascorsi; la seconda cifra numera invece i katun (corrispondente a 7.200 giorni); la terza cifra da il numero dei tun (360 giorni); la quarta cifra indica l’uinal, cioè un mese di 20 giorni; la quinta cifra infine da i kini, che sono i giorni.

Una data quindi era fornita in giorni: la stele D di Copan, per fare un esempio, porta una data corrispondente ad un totale di 1.405.800 giorni trascorsi dalla data iniziale del calendario Maya, che in genere viene collocata nel 3113 (o nel 3373, secondo Spinden) prima della nostra era. Inoltre una data veniva fornita indicando la sua posizione nell’anno religioso e la sua posizione nell’anno solare.

D’altra parte queste date somigliavano molto, a prima vista, a piccole scene animate: a volte vi sono rappresentati dei personaggi, dei facchini, seduti per terra; in questi glifi complessi, solamente le teste devono essere prese in considerazione per il calcolo, ed il valore che rappresentano è riconoscibile, ad una analisi dettagliata, da particolari come dei punti oppure una mano appoggiata al mento, una mascella inferiore ossuta e scarnificata, una pettinatura stilizzata…Il resto del glifo – il corpo del facchino – che non aveva valore di calcolo, era completamente lasciato alla fantasia dell’artista. Secondo le concezioni Maya, in effetti, il tempo era continuamente trasportato nel futuro da alcuni dei che si davano il cambio e si alternavano di volta in volta per governare il mondo: il dio del giorno succedeva al dio della notte, e si caricava sulle spalle il fardello del tempo fissato con una cinghia frontale. I giorni erano esseri viventi, e ognuno di essi era sotto la protezione di un dio, diventava un dio lui stesso, con una duplice natura, una corrispondente al nome di una divinità, l’altra ad un numero. E le cifre, invariabili, avevano molta più importanza dei nomi, che potevano variare.

Come per tutte le civiltà di tipo agricolo, la determinazione del ritmo delle stagioni era indispensabile per assicurare il successo dei raccolti. Era infatti necessario lavorare i campi, seminare, effettuare il raccolto, nei momenti propizi e favorevoli; e il calendario aveva il compito specifico di determinare questi momenti. I Maya possedevano due calendari principali: il più semplice, il calendario sacro – il Tzolkin – era riservato alla divinazione e comprendeva duecentosessanta giorni suddivisi in tredici mesi di venti giorni ciascuno. Il programma delle feste religiose e di tutte le altre attività cerimoniali o private veniva stabilito in base a questo calendario.

Il secondo calendario – l’Haab – solare ed agricolo, era invece composto da 365 giorni suddivisi in diciotto mesi di venti giorni ciascuno, ai quali si aggiungeva poi, alla fine del ciclo, per far tornare i conti, un periodo malefico di cinque giorni, nefasti, vuoti, senza nome, detti di “ristabilimento”, o Uayeb, giorni critici durante i quali non si lavorava, ma si effettuavano digiuni e si osservava la continenza. Questi due calendari coincidevano soltanto a intervalli di 18.980 giorni, cioè ogni 52 anni, periodo di tempo assimilato al nostro secolo, sebbene più breve. Ognuno dei tredici Dei del Pantheon Maya regnava per un mese.

Esisteva poi un terzo metodo di conteggio, in cui interveniva l’anno venusiano, più lungo, poiché Venere compie solo cinque rivoluzioni nello spazio di otto anni solari. Per designare la durata, i Maya avevano poi concepito tutta una serie di periodi che progredivano con i multipli di 20, con l’eccezione del tun, il loro anno di 360 giorni, che corrispondeva a 18 uimal di 20 giorni.

Abbiamo già detto che il loro computo a base di cifre del tempo aveva inizio da una data zero di origine, fissa, che si fa risalire al 3113 a.C.. Questa data mitica, a proposito della quale ci si perde in congetture, potrebbe riferirsi a un evento astronomico dimenticato, o potrebbe forse indicare l’ultima delle loro quattro Creazioni del Mondo. Da parte sua Spinden ha stabilito una cronologia che fa slittare tutte le date di 260 anni indietro nel tempo (3373 a.C.), con una cronologia che sarebbe confermata da analisi effettuate con il metodo del Carbonio 14, ma che crea una discontinuità incomprensibile nel succedersi degli eventi tra i periodi più antichi e il periodo storico. Per questo motivo gli specialisti continuano ad attenersi alla cronologia di Thompson.

Quali mezzi possono aver utilizzato i Maya, che non avevano altri utensili che quelli di pietra, per giungere a conoscenze astronomiche e astrologiche di una precisione così strabiliante? Sembra in effetti accertato che non abbiano usato ne orologi a sabbia ne clessidre ne altri strumenti di precisione. I loro calcoli furono dunque basati esclusivamente su osservazioni oculari, calcoli di triangolazione e misure delle ombre, poiché essi erano sorpresi dall’osservazione che gli astri, e il sole in particolare, si presentavano sotto angoli che cambiano a seconda dei diversi periodi dell’anno. Allo stesso modo osservarono che la permanenza del sole nel cielo aveva durata variabile a seconda di quelle posizioni e si sforzarono quindi di determinare le date dei solstizi, cioè delle posizioni estreme, poiché si traducevano nel giorno più corto e più lungo dell’anno. Per queste osservazioni utilizzarono senza dubbio lo gnomone, una specie di mirino costituito da una semplice pertica posta verticalmente; l’ombra proiettata sul terreno, a mezzogiorno del 21 giugno (solstizio d’estate) da la proiezione più corta, mentre quella che si proietta a mezzogiorno del 21 dicembre (solstizio di inverno) è la più lunga. Se si effettuano osservazioni al sorgere del sole, i diversi angoli di visuale descriveranno un angolo diverso nel corso dell’intero anno, poiché il sole sorge in inverno più a Sud e in estate più a Nord, sulla linea dell’orizzonte, a Levante.

Queste osservazioni hanno potuto essere effettuate a Chichèn Itzà attraverso le feritoie praticate nei muri della torre – osservatorio ben nota, detta Caracol (lumaca), a causa della sua scala elicoidale. Ricketon e Morley hanno a loro volta dimostrato che un osservatore posto sulla cima della grande piramide detta E-VIII, a Uaxactun, vedeva il sole apparire nell’angolo Sud-Est della piattaforma con i tre templi, di fronte a se, all’alba del solstizio d’inverno, e nell’angolo opposto, a Nord-Ovest dello stesso podio, il mattino del solstizio d’estate. Nei giorni di equinozio, il sole sorge lungo l’asse mediano, proprio dietro al tempio centrale. Va da se che la disposizione di quei templi è stata subordinata e calcolata in funzione di queste osservazioni, e che questa combinazione è tutt’altro che accidentale, ma doveva avere la sua importanza. Inoltre essa presuppone un lunga tradizione di osservazione. Oltre all’osservazione diurna del cielo, anche quella notturna doveva essere non meno importante. L’osservazione delle varie fasi e delle traiettorie della luna fu riportata nel codice di Dresda, che si riferisce a 405 lunazioni, come abbiamo già detto, cioè a ben 33 anni di osservazioni. Il manoscritto riporta una tavola contenente 69 date durante le quali si possono avere eclissi solari. Venere, la stella del Pastore, la prima a risplendere, l’ultima a scomparire, con il suo corso irregolare attirò in egual misura l’attenzione, e i Maya si sforzarono di misurarne l’altezza sull’orizzonte, variabile al momento del sorgere o del tramontare del sole.

Come venivano calcolati gli angoli? Alcune illustrazioni dei codici ci mostrano, appollaiati sulle piramidi, dei personaggi ridotti al solo volto o addirittura ad un occhio, posti sotto un baldacchino che li protegge, vicino a due bastoni incrociati posto davanti a loro. D’altra parte, sono stati ritrovati anche dei tubi scavati nella giada, lunghi all’incirca venti centimetri, che ricordano stranamente gli occhiali astronomici cinesi, sprovvisti come questi di vetri ottici. Resta il fatto che tutte queste preoccupazioni, che andavano molto al di la dello stretto necessario per la costruzione di un calendario agricolo, mettono in luce un’ossessione dell’infinito, spaziale o temporale, e una angoscia profonda di fronte alle scorrere del tempo.

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