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Joan Norkot: il cadavere sanguinante
a cura di Alberto Rossignoli
Nel 1690, quando un certo Sir John Mainard morì, tra le sue carte venne ritrovato un documento processuale nel quale veniva narrato il caso del cadavere di una donna in grado, post mortem (!), di accusare i suoi assassini; il tutto venne pubblicato (non senza un accenno di scetticismo) nel luglio 1851 da un certo signor Hunt, un avvocato non meglio precisato, sulla rivista “The Gentleman’s” .
Detto processo si ebbe nella corte di Hereford, nell’Herefordshire, nel 1629.
La storia.
Tra i coniugi Arthur e Joan Norkot si creò una certa tensione data dal fatto che lui sospettava la moglie di tradimento: la realtà è che la tensione fu forse creata dal problema di sovraffollamento che affliggeva la loro dimora, considerato che dovevano vivere con un figlio, la madre di Arthur, la sorella di quest’ultimo con il marito (Agnes e John Okeman).
Una mattina, Joan viene trovata nel letto con la gola tagliata; al suo fianco, illeso, suo figlio e, sul pavimento, un coltello da cucina insanguinato.
Secondo la testimonianza dei parenti, quella notte il marito si trovava nei pressi di Tewkesbury, ove si era recato per visitare degli amici; inoltre, i parenti dell’uomo ritengono altamente improbabile che sia lui l’assassini, considerato anche che, per arrivare alla camera da letto, si doveva necessariamente passare per la stanza dove dormiva il resto della famiglia.
Venne successivamente riconosciuto, nell’inchiesta, il difficile rapporto che c’era tra i due coniugi e si menzionò il fatto che la vittima, prima di coricarsi, era apparsa in evidente stato di agitazione.
Quando gli inquirenti avevano rinvenuto il coltello, si era notato che questo si trovava a una certa distanza dal letto e aveva il manico rivolto verso la porta. Malgrado altre incongruenze come questa, ci si ritenne in presenza di un caso di suicidio (?) e la vittima venne sepolta in modo piuttosto frettoloso. Chiaramente la prova del coltello non convince poi tanto e pertanto la gente inizia (giustamente e doverosamente) a mormorare e interrogarsi.
L’esame autoptico rileva che l’osso del collo è spezzato ed è dunque chiaro che la donna non avrebbe potuto infliggersi da sola questa frattura (tranne nel caso di un’ auto-impiccagione, ma allora perché la ferita da arma da taglio alla gola?). Si scopre inoltre che la quantità di sangue trovata sul pavimento è superiore a quella trovata sul letto e, come se non bastasse, l’alibi del marito crolla rovinosamente quando quegli stessi suoi amici, sotto interrogatorio dagli inquirenti, affermano di non vederlo da ben tre anni!
Benché, col passare del tempo, si accumulino sempre più prove contro i familiari della vittima, il tribunale scagiona tutti, con gran sorpresa e disappunto del giudice Harvey, il quale decide (ragionevolmente) di riaprire l’inchiesta, ricorrendo contro la sentenza.
A trenta giorni dalla sepoltura, il cadavere di Joan Norkot viene riesumato per seguire un’antica superstizione: quando un morto viene toccato dal suo assassino, la ferita (o le ferite) riprende il sanguinamento. Pertanto ai familiari fu imposto di sottostare a questa procedura; in base al resoconto del prete, ad un certo punto, la fronte della morta era tornata ad essere rosea (!), il cadavere aveva spalancato un occhio per poi richiuderlo subito dopo (!) e si era sfilato e rimesso la fede nuziale tre volte (!) tanto che l’anulare aveva iniziato a sanguinare e alcune gocce erano cadute nel terreno sottostante (!): sarebbe stata un’accusa contro la sua famiglia, nell’ipotesi dell’attendibilità del fenomeno in questione nonché dei resoconti ufficiali. Dal momento che il giudice non era convinto circa l’attendibilità di questa testimonianza, il prete si appellò al fratello, sacerdote anche lui, il quale confermò appieno quanto esposto dal fratello.
Analizzando gli atti processuali, sembra che le cose siano andate nel seguente modo.
Quella sera, i coniugi Norkot avevano litigato animatamente e il marito aveva afferrato per la gola la moglie, la quale era caduta battendo violentemente la testa, rompendosi l’osso del collo. Colto dal panico, dopo un consulto col resto della famiglia, si decise di tagliarle la cola con un coltello, in modo da mascherare la frattura (però, in preda all’agitazione, lo fecero sul pavimento, invece che sul letto) e sistemarono la (oramai) defunta Joan Norkot sul suddetto letto, accanto al figlioletto che dormiva profondamente, ignaro dell’orrore che accanto a lui si consumava, ad opera di menti scellerate e senza pietà.
Prima di lasciare la stanza, qualcuno gettò a terra il coltello e, prima di andarsene, John Norkot si lavò le mani lorde del sangue di sua moglie e diede ordine a sua madre di “rinvenire” il cadavere della povera Joan e testimoniare che il figlio era da alcuni amici a Tewkesbury.
L’interrogativo principale è questo: è vero che il corpo di Joan Norkot riprese temporaneamente vita per accusare i suoi assassini? In effetti, in ambito paranormale, si hanno altri presunti casi di “possessione spiritica” (lo spirito di un defunto possiede un vivente, come nel caso del delitto Basa, trattato in un precedente articolo, oppure innesca fenomeni di spostamento di oggetti, apporti, sparizioni, rumori, voci misteriose), però questo sarebbe il primo caso in cui un morto riprende davvero vita!
Nel suo libro “Unsolved Mysteries” Valentine Dyall asserisce, più verosimilmente nonché più ragionevolmente, che sia stato tutto un imbroglio organizzato dai due medici presenti al fine di ottenere una completa confessione dal parentado della defunta.
Nello specifico, nella mano sinistra della donna avevano nascosto una piccola vescica, manovrabile tramite un filo sottilissimo,che era stato fatto passare nel dito con la fede matrimoniale, con all’ interno della quale del liquido rosso scuro. Un altro filo era collegato alle ciglia di un occhio; entrambe le estremità dei fili erano poi state fissate alle due estremità che servivano per trasportare la bara. Quando si era svolto il tutto, i due medici, sistematisi ai lati del feretro, “giocavano” con i fili: ed ecco che l’occhio si aprì e si chiuse e il sangue riprese a sgorgare.
Nel resoconto, si legge che qualcuno volle osservare se effettivamente di trattava di sangue umano, cosa che i due medici (evidentemente non così previdenti) non avevano pensato.
Tuttavia restano ancora dei punti da chiarire.
I fili avrebbero dovuto essere visti, anche se sottilissimi, o, in qualche modo, notati.
E come la mettiamo con la testimonianza dei due preti che videro il colorito della defunta tornare roseo? Allucinazione? Bufala?
E per quanto riguarda la trasudazione del sangue dalla fronte? Come si è potuta ottenere? Da notare che essa si svolge prima della fuoriuscita di sangue dalla ferita e dei movimenti dell’occhio e del dito con la fede nuziale. Non sarebbe stato più “logico” (se si può usare siffatto termine in un caso come questo) che i segni vitali partissero dal volto per poi propagarsi al resto del corpo? E chi lo dice poi? Se i segni vitali fossero partiti contemporaneamente dalla zona del petto,in corrispondenza del (presunto) riattivarsi della circolazione e dunque del battito cardiaco?
Ad ogni modo, la testimonianza dei due preti fu schiacciante: Arthur Norkot, sua madre e la sorella furono condannati alla pena capitale; John Okeman, per motivi ignoti, fu rilasciato e così anche sua moglie, Agnes Okeman, perché in stato interessante.
Cosa è dunque successo?Dal momento che si tratterebbe in assoluto dell’unico caso di un cadavere tornato letteralmente alla vita (e non come spettro o larva astrale ecc.) per accusare i suoi assassini, il caso mi trova un poco scettico e sarei propenso a credere alle ipotesi di Valentine Dyall, se non fosse per quegli elementi appena esposti che non trovano soluzione… Non escludo comunque (e anzi tenderei verso quest’ipotesi) che possa essere una bufala ben riuscita.
L’invito è comunque uno: RIFLETTETE E RICERCATE.
Fonti:
Colin & Damon Wilson, “Il grande libro dei misteri irrisolti”, edizioni Mondolibri, Milano 2003
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